Vuoi conoscere un bestiario? – ground zero: la paura dietro ai mostri

Conoscere il nemico: una prospettiva teorica per leggere la paura e un assunto sulla natura umana.

1.  Introduzione.

Benvenuti, amici lettori.
Quello che state per leggere è il
punto d’inizio di un progetto (a dir poco enorme e impegnativo) quantomeno atipico per il blog: il tentativo di dare una lettura alle motivazioni per cui i “mostri” – siano essi originati dalle leggende, dalla letteratura o dal cinema – generano in noi stati di paura, ovvero la rubrica Vuoi conosce un bestiario?

In questo post cercherò di identificare alcuni punti fondamentali e di spiegarveli in modo che, qualora dovessero emergere in post futuri, io possa rimandarvi a questo articolo senza rendere eccessivamente pesante il post specifico, più orientato alla narrazione.
Non è obbligatorio leggere questa prima parte, tuttavia è fortemente consigliato per diverse ragioni. Innanzitutto perché qui cercheremo di conoscere il nostro nemico, quell’emozione che tanto cerchiamo di evitare e che eppure, spesso e volentieri, cerchiamo con tanto ardore: la paura. In secondo luogo spiegherò qui l’assunto teorico che sta alla base di diverse interpretazioni che darò in molte letture dei mostri che vedremo in futuro. Anche se riprenderò la teoria nelle mie spiegazioni, è comunque necessario, per la miglior fruizione possibile, una spiegazione più comprensibile ed estesa del fenomeno dal punto di vista meramente teorico.
Infine espliciterò e specificherò un’assunzione che sarà sempre presente e da tenere bene a mente, un’assunzione che mi permetterà di fare analisi maggiormente slegate da paradigmi specifici per poter parlare in modo un poco più “ingenuo” del fenomeno in oggetto. 

È comunque doveroso sottolineare che, per quanto ciò di cui sto per parlarvi sia inerente al mio ambito di studio, nessuno degli studi che ho affrontato mi ha ancora permesso di trattare il tema in modo specifico. Tutto ciò che emergerà negli articoli che seguono può essere soggetto ad errori/imprecisioni, anche dovuti alla mia effettiva impossibilità di effettuare ricerche eccessivamente approfondite per alcuni casi; in altri invece farò evidenti semplificazioni per rendere il tutto fruibile a chiunque. Pertanto perdonate eventuali imprecisioni. In ogni caso vi invito a non risparmiarvi nel segnalare, specificare e, eventualmente, criticare. 

Ultima cosa: mi premurerò di lasciare i testi di riferimento e altre letture consigliate in una breve bibliografia alla fine dell’articolo.

Se siamo pronti per iniziare… partiamo da una domanda: che cos’è la paura?


2. Conoscere il nemico: la paura.

La domanda che vi ho lanciato al termine dello scorso paragrafo sembrerà banale. Tutti proviamo paura, nelle situazioni più disparate, tanto che a chiunque è capitato di aver avuto a che fare con questa emozione.

Tuttavia in pochi sanno dare una definizione precisa di paura; si tende a descriverla con le reazioni che provoca sul piano fisico oppure si tende a ricomprendere nella definizione concetti più articolati. Prima di avviare un discorso è bene creare una base comune legata ai significati da attribuire ai singoli termini – come viene fatto da qualunque disciplina, dalla filosofia alla fisica – ed è fondamentale per non fare confusione durante il discorso attribuendo a dei termini significati impropri o errati. 
Dunque dobbiamo trovare una definizione comune di quest’emozione, e in questo la psicologia è sicuramente un valido alleato. 

Innanzitutto la paura fa parte delle cosiddette emozioni primarie o di base, non esiste un’unica classificazione e a seconda del teorico ve ne sono diverse. 
Le più note sono quelle individuate da Paul Ekman (la cui teoria è stata resa celebre dalla serie TV Lie to me, o anche dal film d’animazione Inside out). 
Per Ekman esistono sei emozioni primarie (paura, rabbia, gioia, tristezza, disgusto e sorpresa), le quali sono espresse in modo innato e comune in tutti gli esseri umani. E dalle combinazioni di queste si hanno costrutti emozionali più complessi o emozioni secondarie (ad esempio la vergogna, la nostalgia, il rimorso). 

Una definizione della paura pertinente potrebbe arrivare però da un filosofo e psicanalista, il quale si è occupato della stesura di uno (in realtà due) strumento fondamentale per la psicologia, Il dizionario della psicologia (e poi la seconda edizione). Il filosofo in questione è Umberto Galimberti, che riporta sotto la voce paura: “Emozione primaria di difesa, provocata da una situazione di pericolo che può essere reale, anticipata dalla previsione, evocata dal ricordo o prodotta dalla fantasia. La paura è spesso accompagnata da una reazione organica, di cui è responsabile il sistema nervoso autonomo, che prepara l’organismo alla situazione di emergenza, disponendolo, anche se in modo non specifico, all’approntamento delle difese che si traducono solitamente in atteggiamenti di lotta e fuga […]”.
La paura è quindi un’emozione utile in quanto, a seguito di uno stimolo che a un primo livello di elaborazione leggiamo come pericoloso, ci “attiva” e ci prepara per rispondere con il meccanismo denominato appunto di attacco o fuga (fight or flight). L’attivazione fisiologica che essa comporta si manifesta con diverse reazioni fisiche: aumento della frequenza cardiaca, incremento della sudorazione, aumento dei livelli di adrenalina, intensificazione delle funzioni cognitive etc.. Tutte queste reazioni risultano utili al fine di migliorare in primo luogo la nostra percezione dello stimolo per ri-elaborarlo e stabilire, definitivamente, se effettivamente si tratta di una minaccia o meno. In secondo luogo ci prepara all’eventuale risposta che decideremo di adottare massimizzando la nostra prestazione fisica.
La paura è quindi fondamentale per la sopravvivenza nell’eventualità di un reale pericolo, sia che decidiamo di fuggire sia che decidiamo di combattere. 

La paura non è unica. Tra i soggetti che la esperiscono infatti esistono differenze di intensità percepite a parità di stimolo; inoltre esistono diversi gradi che questa emozione può assumere.
Esistono stimoli innati che tendenzialmente provocano questa emozione, come rumori improvvisi e forti o inaspettati.
Alcuni di noi, vivendo in contesti in cui certi stimoli sono quasi quotidiani, sviluppano una sorta di condizionamento alla paura provocata da quest’ultimi.
Ognuno di noi può rispondere in modo diverso a uno stesso stimolo di pericolo, per esempio: per una persona sentire un insetto camminargli sul braccio può provocare paura, in quanto percepisco uno stimolo indefinito, potenzialmente pericoloso; tuttavia una volta elaborato lo stimolo e resomi conto che l’insetto è un innocuo ragnetto la paura si attenua (poi potrei comunque provare disgusto e quindi allontanarlo in modi poco carini). 
Per un altro individuo, magari aracnofobico, la paura (che è fobia) si manifesta con una risposta eccessiva che potrebbe paralizzarlo rendendolo incapace di difendersi, oppure tramutarsi in panico, portandolo a reazioni inconsuete, poco funzionali e talvolta rischiose per l’incolumità stessa dell’individuo.
Se avete notato ho fatto già riferimento a due gradi di paura – la fobia e il panico. Non è importante che io mi soffermi realmente su tutte le sfumature che l’emozione può assumere, ma ritengo necessario soffermarmi su tre declinazioni che sono invece tipologiche nelle storie horror.

L’orrore che è definito come “sentimento di forte paura e ribrezzo destato da ciò che appare crudele e ripugnante in senso fisico o morale. Per estensione, orrore può indicare un fatto, un oggetto o una situazione”.
Il terrore che è definito come “forma estrema della paura, di intensità ancora maggiore rispetto al panico, dove l’impulso a scappare è talmente elevato da ricercare una soluzione immediata: in questo caso l’individuo sceglie di ritirarsi dentro se stesso. Il terrore è una vera e propria fuga verso l’interno, tanto che la muscolatura può paralizzarsi nel tentativo di ridurre la sensibilità dell’organismo durante la presunta o reale agonia.”
E l’ansietà che è definita come “una situazione in cui la minaccia del dolore e quella del piacere si equivalgono, generando una situazione di conflitto nell’attesa di qualche indizio capace di far pendere la bilancia da una parte o dall’altra”, riferendosi a quella che è la necessità di una elaborazione maggiormente conscia dello stimolo terrorizzante per definirlo meglio: è quindi uno stato di indeterminazione. 

Farò ora riferimento al testo che ha ispirato questo post, ovvero Il perturbante di Davide Borghetti, in cui si cita uno dei maestri dell’horror dei nostri tempi, Stephen King (il quale in realtà condivide anche la visione di Lovecraft in tema).
Per il suo modo di vedere le storie dell’orrore, esistono tre tipi di paura:
1. il ribrezzo, che fa riferimento alla sensazione che si prova vedendo scene particolarmente cruente;
2. l’orrore, che è quella paura che si prova di fronte a una creatura sovrannaturale o mostruosa, la paura del buio che si concretizza nell’affrontare il mostro;
3. il terrore che rappresenta il livello più alto in questo modello dei tipi di paura per King: il terrore fa per lo più riferimento a uno stato mentale in cui percepiamo appena un pericolo che però ci è nascosto, che non comprendiamo e che fatichiamo ad elaborare. 

Questo modello è già un modello interessante, sicuramente è poco psicologico, tuttavia distingue bene tre modi di fare horror sia nei film che nei libri. 
La paura letteraria come abbiamo capito non è propriamente la paura psicologica, essa fa piuttosto riferimento a ingredienti (declinazioni della paura) che si miscelano in ricette diverse di ansietà, disgusto e orrore. 


3. Il perturbante: una prima, possibile, chiave di lettura.

3.1 Il perturbante per Ernst Jentsch.

A paragonare l’esperienza dell’orrore al perturbante fu proprio Freud in un suo saggio che prendeva questa parola come titolo (in tedesco era Das Unheimliche, vocabolo che, come spesso accade nella traduzione, non ha un reale corrispettivo in lingua italiana) nel 1919. 
Tuttavia anche con una semplice ricerca in Google si può scoprire che a parlare di Unheimliche fu per primo uno psichiatra, tal Ernst Jentsch nel suo saggio Zur psychologie des Unheimlich (La psicologia di ciò che è sconosciuto) del 1909.

Nell’opera con il termine Unheimliche Jentsch indicava uno stato mentale derivante dall’esposizione a stimoli rispetto ai quali non riusciamo a prendere una posizione netta. 
Nello specifico Jentsch lo definisce come l’incertezza intellettuale verso un simulacro, ovvero un oggetto di cui è difficile determinare il dominio ontologico, cioè per cui è difficile stabilire se è un animato/vivente oppure se è un artefatto. Jentsch si richiama all’impressione data dalle figure di cera, dagli automi e dai pupazzi costruiti ingegnosamente. Effetti perturbanti sono inoltre sovente ottenuti quando l’osservatore è posto al cospetto della ripetizione continua, “automatica” di una stessa situazione, ad esempio di uno stesso movimento.

Inoltre Jentsch per primo coglie come il perturbante venga utilizzato come strumento nella narrativa: alcuni autori introducono nelle loro storie figure la cui natura di essere vivente o di automa non viene dettagliata o chiarita in qualche modo, lasciando il lettore nel dubbio e nell’impossibilità di decidere. Nello specifico analizza un’opera di Ernst Theodor Amadeus Hoffman, ovvero L’uomo di sabbia.
Da ciò deriva che la situazione o l’oggetto perturbante ha connotati familiari e assieme estranei, genera una incertezza intellettuale, quella che nella psicologia cognitivo/comportamentale sarebbe stata definita come dissonanza cognitiva.

Grazie al pensiero di Freud potremo approfondiremo maggiormente i temi del perturbante.

3.2 Il perturbante in Sigmund Freud.

Freud parla del termine a partire dalla sua etimologia. Unheimlich è di fatto il contrario del termine heimlich che, in lingua tedesca, significa qualcosa di intimo, confortevole, familiare, solitamente legato alla casa. Tuttavia vi è una dicotomia di significato in questo termine: heimlich fa anche riferimento a ciò che viene celato nell’intimità delle relazioni, o tra le mura della casa. Basti pensare all’intimità che noi tutti viviamo con le persone entro le quattro mura delle nostre abitazioni: sono cose che non tendiamo a rivelare all’esterno dell’ambiente domestico.
Con il prefisso Un affiancato alla parola heimlich si genera quindi una parola la quale fa invece riferimento all’ inconsueto, allo sconosciuto, all’estraneo e, continuando con l’ambivalenza vista precedentemente, fa riferimento a un qualcosa qualcosa che, pur non dovendo, emerge, affiora.
La condizione di perturbamento quindi emergerebbe quando si fondono caratteristiche di familiarità e allo stesso tempo caratteristiche di estraneità.

Freud (come Jentsch) riteneva Hoffman l’autore maestro del perturbante. Per Freud, diversamente da Jentsch, la sensazione di perturbamento nel racconto L’uomo di sabbia non deriva solo dall’incertezza causata dalla bambola o dalla figura del mago in sé; bensì anche e soprattutto dal fatto che il mago asportasse gli occhi dei bambini: per Freud ciò si lega al riaffiorare, nella mente del lettore, del complesso di castrazione.
Questa breve spiegazione del racconto (vi invito a una lettura del testo completo), fa ben intendere il concetto di unheimliche: qualcosa di estraneo (asportazione degli occhi) fa riaffiorare alla mente qualcosa di familiare: il complesso di castrazione, vissuto da tutti in età infantile, ma successivamente rimosso, e attualmente parte dell’inconscio.

Tuttavia per Freud non è solo il complesso di castrazione che può riaffiorare quando si genera la sensazione di perturbamento. Egli riporta infatti altre situazioni in cui si viene a creare.
La prima area che si potrebbe analizzare è quella che riguarda il doppio. Ovvero il trovare qualcuno di uguale a sé, un doppelgänger. Per Sigmund, a riemergere, in questo caso, sarebbe il narcisismo primario (in brevissimo: quella fase nella quale il bambino assume sé stesso come oggetto d’amore, prima di scegliere oggetti esterni) dei bambini, che con la crescita viene sepolto nell’inconscio e nel doppio viene fatto riemergere. (Freud era uno strano, tranquilli, è pensiero comune anche tra noi psicologi.)
La seconda area che Freud prende in considerazione è quella degli atti ripetitivi, e più in generale della ripetizione. Atti ripetitivi in che senso? A quanto pare ripetere gesti in modo meccanico ed ossessivo (ad esempio alcuni tic) riuscirebbe a causare la sensazione di perturbamento, così come il ripetersi di situazioni già vissute (dejà vu) o il costante muoversi in ambienti tutti uguali e il ritrovarsi sempre nelle stesse stanze (Borghetti, nel suo libro, fa molti esempi ben comprensibili. Quello forse più rappresentativo per me è l’esempio dell’Overlook Hotel dello Shining di Kubrick: corridoi lunghissimi e apparentemente tutti uguali, che fanno ritrovare sempre nelle stesse stanze; stanze strane perchè troppo grandi, disposte nello spazio in modi impossibili).
Per il padre della psicanalisi (uomo strano) che continuo a citare, la ripetizione di un gesto, un fatto, un comportamento, può divenire perturbante poiché evoca idee rimosse dall’adulto e presenti in età infantile (e negli uomini primitivi), quali il pensiero magico onnipotente animistico che comanderebbe le azioni eseguite automaticamente, il cui fine è a noi ignoto.
In questo senso rientra anche quello che viene definito come pensiero magico o pensiero superstizioso: ovvero quando, per una connessione casuale di fenomeni, ci sembra che il nostro pensiero abbia in qualche modo influenzato gli eventi fisici (es: sono in auto, mi viene tagliata la strada e penso: “Spero tu faccia un incidente”, poi poco più avanti l’auto che mi ha tagliato la strada ha effettivamente fatto un’incidente. Ovviamente la cosa è accaduta per le condizioni della guida adottate dal guidatore e per una serie di altri fenomeni, non certo per il fatto che io gli abbia mandato “il malocchio”).

Altri temi sono presi in analisi da Freud, tra cui il ritorno dei morti, la sepoltura dei vivi – in cui il desiderio rimosso che causa il perturbante sarebbe l’inconscio desiderio di ritornare nel grembo materno (fate voi… io non ho più parole per descrivere quanto sia strano) – e l’animazione dell’inanimato.
Tutte categorie che tra cinema e letteratura horror hanno, in qualche modo, costituito dei pilastri, soprattutto alla fine del secolo scorso.

Insomma, per quanto il pensiero del buon Sigmund possa essere discutibile e non privo di punti criticabili, ci dà comunque buoni spunti di riflessione che torneranno sicuramente utili nella prossima analisi e, soprattutto, ci dà il là per parlare di un interessante (a mio modo di vedere) modello che cerca in qualche modo di spiegare il perché della nascita di questa sensazione.

 

4. Uncanny valley e validità teorica del modello.

4.1 Il modello della Valle del perturbante.

Passiamo ora a illustrare un altro modello teorico che per la nostra analisi potrebbe risultare estremamente utile, quello della Valle del perturbante

La Valle del perturbante è un modello che venne proposto dal professore di robotica Mashiro Mori del Tokyo Institute of Technology negli anni ‘70. 
Al professor Mori venne commissionato un articolo per la rivista scientifica Energy. Per quell’articolo al professore venne in mente la sensazione di timore che provava quando visitava i musei delle cere, che abbiamo già visto parlando del perturbante, e di come quella sensazione si sia ripresentata quando nel suo laboratorio aveva creato una mano robotica in grado di simulare parzialmente i movimenti di una mano umana. Da qui nasce dunque la sua intuizione.  

Il suo modello (egregiamente rappresentato nella sua rappresentazione grafica) vede due variabili: sensazione di familiarità e verosimiglianza.
La prima può essere intesa come un dato sovrapponibile all’heimich di Freud quando positivo, ovvero quando avviene un riconoscimento dello stimolo netto e definito. Può anche assumere una valenza negativa, sovrapponendosi in questo modello alla sensazione di unheimlich
Per quanto riguarda la seconda variabile, questa è la verosimiglianza dello stimolo, che avvicinandoci al centro dello schema è pari a 0 e idealmente giungendo al suo estremo opposto è pari 100, ovvero a un essere umano o comunque allo stimolo che tipologicamente riconosciamo.

Mori applica il suo modello alla mano robotica partendo dai più bassi gradi di verosimiglianza. Immaginiamo dunque di stare osservando un arto robotico utilizzato in una catena di montaggio automatizzata. Riconosciamo caratteristiche tipiche degli arti umani, quali ad esempio le giunture che fungono da perno per i movimenti che potrebbero in qualche modo ricordare polso, gomito e spalla. Tuttavia nulla ci mette in difficoltà nell’attribuire un “dominio ontologico”, si tratta di un artefatto. E tutte le sue caratteristiche percepibili ce lo confermano. 
Ora immaginiamo di stare osservando un androide perfettamente identico a un essere umano, per intenderci un replicante di Blade Runner: se non sapessimo di trovarci di fronte a un robot non ce ne accorgeremmo mai.
In uno stato intermedio troviamo la mano robotica del professor Mori. Una protesi creata per sembrare realistica che, però, muovendosi rivela la sua natura non umana, è meccanica, non si muove fluidamente come quella di un umano. Questa dissonanza è già fonte di incertezza quindi decidiamo di avvicinarci e di osservarla meglio. Ha una pelle sintetica per creare l’illusione che, tuttavia, toccandola crolla. Cogliamo le differenze: è fredda, priva di vita. Troppo molle in alcuni punti  e troppo dura in altri, anche la consistenza non è quella esatta.

Insomma una replica così curata, troppo curata, che però crea sensazioni di estraniamento. 
Questo modello è stato poi replicato anche per spiegare la stessa sensazione in oggetti statici, quali ad esempio, gli animali impagliati. È un modello applicabile con facilità a diversi oggetti, da bambole e  manichini, agli animatronics; è applicabile ad alcune creature tipiche dell’horror, su tutti gli zombie, ed è applicabile a molti altri concetti della vita quotidiana, quali ad esempio la CGI in film e videogames. 

Tuttavia non è un modello scientificamente valido al 100% e non è inoltre a mio avviso privo di difetti. Nella prossima sezione parleremo (anche se brevemente) della validità di questo modello e delle critiche che sento di poter muovere. 

4.2 Validità teorica del modello di Uncanny Valley e alcune considerazioni personali.

Seguendo quello che è il ciclo della ricerca, un’ipotesi necessita di essere confermata (o smentita) dalle ricerche successive. Due sono le ricerche riportate nel testo di Borghetti. 

La prima è una ricerca condotta dal professore Karl MacDorman dell’Indiana University. 
Nella ricerca diverse persone venivano sottoposte a un filmato nel quale avveniva un progressivo cambiamento nelle immagini mostrate, da un volto robotico appena abbozzato si arrivava ad un volto umano vero e proprio; ai partecipanti alla ricerca veniva chiesto poi di di riportare un giudizio circa il realismo, la familiarità e la paura provata. 
Fondamentalmente i risultati riportati a livello grafico hanno confermato il modello, facendo però emergere il fattore delle differenze individuali che lo stimolo, percepito da persone diverse, assume nelle variabili studiate.
In oltre MacDorman espone un concetto che ho già anticipato precedentemente: la Valle del perturbante può essere provocata anche dall’incertezza che deriva dalla classificazione dello stimolo. 
Quando ci troviamo dinanzi a uno stimolo, il nostro cervello lo associa a categorie mentali formate che ci permettono di identificarlo e comprenderlo. Queste categorie, che ho precedentemente riportato come “dominio ontologico”, per alcuni stimoli non sono ben definite e non sempre è facile ricondurre lo stimolo al corretto dominio ontologico di riferimento, specialmente quando lo stimolo è nuovo. Questa difficoltà porta il nostro cervello a richiedere un’attivazione di maggiori risorse cognitive utili ad una razionalizzazione conscia, che però avviene con difficoltà. Questo concetto fa riferimento ai modelli di funzionamento della mente che tuttavia riprenderemo in seguito, per ora basti sapere che l’incertezza nella categorizzazione, quando lo stimolo è ambiguo e si presta a interpretazioni che percepiamo come minacciose, provoca più facilmente la sensazione di perturbante.

La questione dell’individualità apre anche altre questioni circa l’etnocentricità di questo modello, ovvero quanto questo modello sia centralizzato e applicabile ad altre popolazioni di riferimento.
È ragionevole pensare che in società non abituate a certi stimoli, questi siano fonte di maggior dissonanza, rispetto allo stesso stimolo riproposto in società che si sono adattate a convivere con quello stimolo.
Un esempio banale ma efficace potrebbe essere il seguente: immaginate di confrontarvi con un nativo della foresta amazzonica. Immaginando di essere nel fitto della giungla e di sentire un suono forte, riconducibile al verso di un animale, io potrei esserne terrorizzato, non so identificarne la direzione, quindi mi guarderò intorno, non so identificarne l’origine, potrebbe essere un predatore; allo stesso stimolo un nativo della foresta non si scompone minimamente, è abituato a quel suono e lo sa riconoscere e catalogare a livello istintivo ormai, sa che quel suono è un particolare richiamo per una qualche specie animale pacifica e non minacciosa per un essere umano. 
Allo stesso modo un androide in una società futuristica potrebbe essere talmente consuetudinario da non turbare minimamente le persone che lo vedono muoversi in una strada.

La seconda ricerca, invece condotta dal professor David Hanson della University of Texas di Dallas, ha criticato ampiamente l’inconsistenza della definizione data da Mori nel suo articolo del costrutto di realismo e delle variabili che concorrerebbero alla sua misurazione. Considerate, giustamente, troppo aleatorie. 
Nella ricerca condotta da Hanson si è dimostrato come con questa definizione fosse possibile, manipolandola in modo attinente alla definizione data, riuscire a disconfermare completamente il modello, riuscendo a mostrare via grafico una completa inversione di tendenza. 
Per quanto mi possa trovare d’accordo con la critica iniziale mossa, il disegno sperimentale mi è sembrato quantomeno poco coerente negli stimoli mostrati ai partecipanti.

Insomma, quello dell’Uncanny Valley è un modello come già detto per nulla privo di difetti, alcuni anche molto gravi; ciò nonostante ritengo che alcune parti del modello siano assolutamente utili per trovare una spiegazione della paura provocata da alcune delle figure che prenderò in analisi. Inoltre è un modello che gode di grande considerazione da parte di diversi studiosi di robotica per quella che è la componente estetica, il che riprova che forse non è del tutto da buttare. 

5. Alcuni affondi dalla psicologia cognitiva e un ultimo assunto da tenere sempre a mente.

5.1 L’umano come elaboratore di informazioni.

Ci avviamo ora alla conclusione di questo lungo articolo, ma prima di chiudere ci tocca sviscerare ancora un pochino come elaboriamo le informazioni. 

Nella parte precedente ho parlato di categorie mentali e dominio ontologico e ho anche accennato, senza esplicitarli, ai modelli duali della mente.

Partiamo da un assunto: gli umani sono ottimizzatori di risorse cognitive
La psicologia cognitiva (citando Wikipedia) è una branca della psicologia applicata allo studio dei processi cognitivi, ossia quei processi mediante i quali le informazioni vengono acquisite, elaborate, memorizzate e recuperate.
Cosa significa essere quindi ottimizzatori di risorse cognitive? Significa che quando siamo chiamati a elaborare uno stimolo (informazione), a memorizzare o a recuperare utilizziamo delle risorse del nostro organismo, un po’ come i PC che per svolgere qualunque funzione utilizzano la loro memoria RAM.

Il primo a parlare di Bounded cognition fu Simon, il quale ci insegna che siamo limitati e non possiamo prestare la stessa attenzione a tutto, vuoi per fattori individuali, vuoi per fattori contestuali. Un esempio stupido, ma sempre efficace è questo: guidare mentre si sta facendo una chiamata al telefono. Una delle due attività risentirà della carenza delle risorse cognitive, talvolta ciò si concretizza con discussioni telefoniche poco articolate o completamente parlate in una lingua aliena all’italiano, talvolta si concretizza invece in incidenti automobilistici.

Idea diffusa nella psicologia cognitiva è che per ottimizzare la scarsità di risorse, il nostro cervello attiva uno di due possibili sistemi, che in letteratura sono riportati, con alcune differenze, da diversi autori.
Thaler e Sherif approfondendo una teoria precedente parlano di Doer vs Planner, altri autori parlavano di hot state vs cold state, Khaneman parlava di sistema 1 vs sistema 2.

Immaginatevi l’uomo come una creatura che nella presa di decisione è costantemente in bilico tra ciò che deve fare nella prospettiva del futuro e ciò che vorrebbe fare nel qui ed ora.

Esistono quindi due forze in un individuo. La prima è una forza pianificatrice e orientata al lungo periodo, razionale e capace di elaborare molte informazioni, in grado di ragionare e trovare soluzioni a problemi anche molto complessi che, tuttavia, richiede un’attivazione volontaria da parte della coscienza e che consuma molte energie per funzionare. Thaler, in questo caso, parla di planner e per Khaneman questo è il sistema 2 – per usare una metafora dello stesso Thaler: un piccolo Spok che soffre di pigrizia (per via dell’ottimizzazione che, in quanto umani, siamo portati a effettuare) .

Questo si contrappone invece a un sistema più impulsivo, automatico, a basso consumo energetico che si attiva quando non abbiamo tempo di riflettere, quando l’azione che compiamo è un’azione tipica o quando non siamo interessati allo stimolo. Un decisore orientato alla soddisfazione immediata del bisogno e che poco riflette sulle conseguenze delle decisioni che prende: un Homer Simpson iperattivo, che per Thaler ha il nome di doer e per Khaneman è, invece, il sistema 1.
Per intenderci, è quel sistema che ci fa preferire la sigaretta qui e ora, alla salute (razionalmente preferibile) nel poi. 

Insomma ogni stimolo viene analizzato dal nostro cervello dopo che è stato percepito e viene elaborato a partire da uno di questi due sistemi, con una tendenza a preferire il secondo presentato (sistema 1) nelle elaborazioni più comuni e frequenti. 
Quando le informazioni sono poche, il tempo a disposizione è scarso o siamo impegnati in altri compiti ritenuti più rilevanti, ecco che interviene il sistema 1: questo per operare velocemente usa quelle che sono le così dette euristiche, vere e proprie scorciatoie di pensiero che ci permettono di creare un’immagine tutto sommato accurata del mondo che ci circonda; il sistema 1 è perciò di solito un sistema che è affinato nel tempo e nell’utilizzo e ci viene in dote dal lungo percorso storico dell’evoluzione.

Purtroppo la semplificazione che mette in campo lo fa cadere in errori, quelli che sono chiamati bias. Questi inciampi della mente creano delle distorsioni più o meno gravi che poi si cristallizzano e divengono credenze vere e proprie (spesso abbiamo parlato dei bias sulle nostre pagine e per parlare approfonditamente di bias ed euristiche servirebbe un altro post a parte). Spesso la nostra presa di decisione viene mediata da questi processi ai quali vanno assunti i vari stati emotivi ed affettivi del momento, o che la situazione rievoca (tramite il ricordo) o che ci fa prefigurare, tanto che si parla nella libera decisione di scelta liberamente obbligata, di fatto liberamente decisa dal decisore ma allo stesso tempo condizionata dallo stesso sistema che computa ed elabora la decisione.

Ma tutto questo discorso sulla presa di decisione e l’elaborazione delle informazioni come si ricollega alla paura?
Il legame sta nel fatto che la paura è una risposta agli stimoli ambientali che, come abbiamo visto, vengono parzialmente percepiti ed elaborati dai nostri sistemi cognitivi; la paura – qui intesa non tanto come emozione di base ma quanto piuttosto come complesso stato emotivo dato dalla presenza di orrore, terrore e ansietà – non nasce tanto dal fatto che lo stimolo stesso venga correttamente elaborato, quanto piuttosto dalla mancanza di una corretta e soddisfacente elaborazione che riesca a darne una spiegazione complessiva. È un’emozione che ha origine quindi dal fallimento della razionalità e da quei connotati inconsci di cui dobbiamo accettare, volenti o no, di essere costantemente vittima.
Sta nella zona di grigio tra inconscio e conscio, ed è forse in questa sua natura tanto misteriosa quanto atavica che è possibile trovare una spiegazione del perchè la ricerchiamo con tanto ardore.

In un ambiente che oramai percepiamo come stabile, privo di rischi, privo di minacce (diverse da quella umana), guidato dalla logica della razionalità, ecco che nasce un nuovo bisogno: un inconscio richiamo alla natura e all’indeterminazione tipica degli ambienti permeati dal fascino magico e misterioso dell’ignoto che erano gli ambienti pre-essere umano. Ed ecco forse perchè i mostri dei miti, delle fiabe e della narrazione horror da un lato sono leggibili come una proiezione di una paura inconscia (quella della morte in prevalenza) dell’uomo, ma dall’altro si ascrivono a fenomeni dai connotati magici o divini/diabolici, come forze in diretta contrapposizione. 

Ecco quindi che il fantasma é la proiezione della paura della morte che si manifesta attraverso meccanismi irrazionali; la paura è quindi anche il fallimento della razionalità.

5.2 Un ultimo assunto da tenere sempre a mente

E quindi chiudo questo lungo pezzo dicendo che la paura, a mio avviso, si origina da tutti questi fattori, e se prima le narrazioni fiabesche instillavano la paura in chi le ascoltava per veicolare un messaggio che portava in seno una norma, oggi quelle narrazioni hanno assunto un diverso significato, divenendo una strategia funzionale al fine di vivere e far riemergere emozioni che altrimenti tenderebbero ad atrofizzarsi – atrofizzando di fatto un sistema datoci in dote da un lungo processo evolutivo e tramandatoci dai nostri antenati per consentire agli individui maggiori probabilità di sopravvivenza. D’altronde chi ha più paura ma affronta lo stimolo in modo più funzionale, lottando o fuggendo, non paralizzandosi (che è la reazione più comune), ha maggiori chance di sopravvivere.
E quale migliore preparazione se non quella ludica di una narrazione, che mette nelle condizioni di affrontare in totale sicurezza il pericolo? 

Infine, molte volte si cerca di separare tramite le etichette il bene dal male, il giusto dallo sbagliato, il buono dal cattivo. 
Spesso riletture moderne fanno coincidere i mostri delle narrazioni con immagini in un certo senso allegoriche dei mostri del mondo reale. Questa sovrapposizione avviene perchè – da bravi ottimizzatori di risorse quali siamo – è più facile procedere per stereotipi facendo coincidere dei tratti disposizionali di individui “malvagi” a dei tratti fisici e comportamentali dei mostri, illudendoci, così, di poter riconoscere il mostro con un solo sguardo. 

Al termine di ogni post lancerò un monito, che è sempre bene tenere a mente: il mostro peggiore è e sempre resterà l’essere umano: le sue ombre, i suoi fantasmi e i suoi demoni, la sua stessa intelligenza, lo rendono capace di mostruosità che in nessun comportamento di altro animale in natura vengono riscontrate. 
Solo l’uomo uccide per piacere, per il potere e per esercitare il controllo dell’altro. E, ahimè, a distinguere la brava persona dal serial killer non sono sufficienti la carnagione e la lunghezza dei canini. A distinguere il dipendente che una mattina compirà una strage in un ufficio dal dipendente che in quell’ufficio passerà i suoi ultimi istanti non sono sufficienti il colore degli occhi o le sue preferenze alimentari.

Il male, come dice Hannah Arendt, è banale e in realtà è più nell’ordinario che nello straordinario. I vari Leatherface, Michael Myers, Freddy Krueger nel cinema, i vari Hannibal Lecter, Penny Wise e Cthulhu della letteratura altri non sono che demoni, fantasmi e paure che hanno preso forma a partire da eventi che nella realtà hanno dato il via alla loro trasfigurazione su carta o pellicola.


Conclusioni 

Se mi avete seguito fin qui vi ringrazio con tutto il cuore, vi prego di farmi sapere cosa ne pensate nei commenti. Vi chiedo scusa per l’enorme ritardo accumulato nella stesura e pubblicazione di questo post (doveva essere lo speciale per Halloween), ma spero che l’attesa sia valsa il risultato finale. 
Mi scuso, so che questo non è un post semplice e che forse non è un post “per tutti i palati”, ma se lo avete trovato interessante vi chiedo di condividerlo con tutti gli amici a cui il tema potrebbe interessare, condividendo il link. 

Vi ringrazio ancora e continuate a seguire VCUC per i prossimi episodi di Vuoi conoscere un bestiario?.

EMME 


BIBLIOGRAFIA E TESTI D’APPROFONDIMENTO:

Il perturbante. Paura e inquietudine nel quotidiano – Davide Borghetti
Nuovo dizionario di psicologia. Psichiatria, psicanalisi, neuroscienze – Umberto Galimberti 
Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste – Paul Ekman 
L’uomo di sabbia e altri racconti – Ernst Theodor Amadeus Hoffmain
La banalità del male – Hannah Arendt
La storia del Necronomincon – Sebastiano Fusco
Nudge: la spinta gentile – Cass Sunstein e Richard Thaler 
La terza faccia della moneta (terza parte del libro) – Massimo Bustreo


Paura, Psicologia

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