RECENSIONE FILM: C’era una volta a… Hollywood di Tarantino

Bentornati, cari lettori e care lettrici, sulle pagine di VCUC.

Oggi dietro la tastiera ci sono io, Emme, e nelle prossime (molte) righe cercherò di raccontarvi cosa penso del nono film di Tarantino. Mentre tutti discutono del Joker di Joaquin Phoenix (di cui forse a breve troverete anche una nostra recensione, ma solo quando tutti parleranno di El camino), io dimostro di essere, come sempre, sul pezzo 😉
E sì, strano che sia IO a parlarvene, ma Alex non voleva e quindi… eccomi qui.

Questa non vuole essere una recensione di analisi registica, né tantomeno di analisi dettagliata di ciò che succede durante la pellicola, né di analisi profonda dei personaggi: il mio obiettivo qui è quello di cercare di capire con voi perché questo film è così particolare e perché mi ha convinto. 
Se cercate una recensione “classica”, mi spiace ma siete nel posto sbagliato. 

Piccola premessa storica.
Siamo alla fine degli anni sessanta: anni caratterizzati da diverse rivoluzioni culturali, scientifiche e sociali; anni di sicuro benessere economico; anni che vengono anche tristemente ricordati come periodo di guerre sanguinose (vedi il Vietnam) e di puro terrore psicologico (Guerra Fredda). Fu inoltre un periodo cruciale in quanto di lì a breve l’uomo sarebbe sbarcato sulla Luna.
É proprio in questi anni che, vuoi per i rapidi cambiamenti della società, vuoi per l’instabilità e la costante paura della fine del mondo, era frequente la formazione di sette pseudo religiose guidate da capi decisamente carismatici, che venivano riconosciuti come messia dai loro gruppi. Gruppi anarchici o anticonformisti per lo più composti da pacifisti o Hippies, giovani e giovanissimi, che creavano vere e proprie sottoculture (definite dalla sociologia devianti), i cui modelli valoriali prevedevano una vita comunitaria con particolari riti religiosi a dettarne i tempi – per lo più a base di droghe allucinogene – e che spesso proponevano pratiche di vita sessuale molto… particolari.
Tra le più famose sette di questo tipo troviamo i cosiddetti “Arancioni di Osho”, che tra il 1981 e il 1985 occuparono una regione dello stato dell’Oregon (a tal proposito rimando a un interessante documentario disponibile sulla piattaforma Netflix, chiamato Wild Wild Country, per chi volesse approfondire). Tuttavia in quel periodo la setta maggiormente nota, soprattutto per essere passata agli onori della cronaca nera, è la “Famiglia” di Charles Manson. Attiva tra il 1967 e il 1969, si rese tristemente nota per l’efferata strage di Cielo Drive, Hollywood, durante la quale alcuni membri della “Family” fecero irruzione nella casa dei coniugi Polanski e uccisero a sangue freddo 5 persone, tra cui l’attrice Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, la quale aspettava un bambino che sarebbe dovuto nascere di lì a poco. 

É in questa cornice di contraddizioni che Tarantino decide di catapultarci con il suo film. 

C’era una volta a… Hollywood è, come mi piace definirlo, il what if di Tarantino, il quale non ci vuole raccontare una storia densa di eventi particolari, con eroi o mostri, bensì ci catapulta in un periodo qualunque della vita dei protagonisti. Senza un preciso scopo o una specifica ragione, se non il gusto di ricreare la realtà così come LUI se l’è immaginata. 

Ho parlato di protagonisti non a caso: secondo me, infatti, non esiste UN protagonista come si sarebbe potuto invece evincere dai trailer, attribuendo il ruolo alla figura di Rick Dalton (interpretato da un sempre meraviglioso Leonardo Di Caprio). Questo film è, a mio avviso, un film corale. Perché, è vero, passiamo molto tempo vivendo la storia di Rick, tuttavia questo significa vivere in parallelo la storia di Cliff Booth, la sua controfigura, (interpretato da un non più giovanissimo Brad Pitt) che è protagonista tanto quanto l’amico. Intorno a loro si sviluppano poi le vicende di tanti altri individui.

Come ho già detto questo è il what if di Tarantino.
Perché? Perchè Rick Dalton non è mai esistito. E come lui nemmeno la sua controfigura Cliff. Ciò nonostante durante tutta la pellicola vedremo i personaggi inseriti in spezzoni di film, ormai storici, che interagiscono con grandi nomi del cinema (tra cui Bruce Lee).
In questo universo fittizio Rick è il vicino di casa del regista Roman Polansky sulla Cielo Drive nell’anno 1969, e quindi in qualche modo anche la storia che poco fa vi ho fatto presente della “Family di Manson” si intreccerà alle vicende dei personaggi introdotti. 
Il film è un continuo spostarsi di punto di vista, da un personaggio a un altro, senza soluzione di continuità. Ovviamente con lo stile di Tarantino. 
Un attimo prima siamo in un film western, che subito dopo capiamo essere un film che sta venendo ripreso nel momento in cui osserviamo (meta cinema).
Subito dopo ci troviamo nella mente di uno dei protagonisti, che rivive, mediante un flashback (tipico nelle pellicole Tarantiniane), un suo ricordo.
Altre volte tutto si mescola rendendo, forse, difficile orientarsi.
Insomma, chiunque conosce il regista sa che questa è caratteristica ricorrente nei suoi film, anzi in alcuni casi ha fatto di “peggio”, invertendo e spostando del tutto le sequenze del racconto (vedi Pulp Fiction).
In questo caso però all’inizio del film mette le mani avanti spiegando il primo flashback, facendolo narrare da una voce esterna.Voce narrante che sentiremo solo un’altra volta durante la pellicola, per spiegarci un salto temporale. 

La storia mostrata, nonostante gli espedienti narrativi, è tuttavia semplice e molto lineare: Rick Dalton, attore reso noto da serie televisive di grande successo, ha provato a sfondare nel mondo del cinema con risultati altalenanti. Ora si trova a vivere una crisi, nella quale trascina, volendolo o no, anche la sua controfigura e amico Cliff Booth, che ormai si trova costretto a fargli solo da galoppino e autista.  

Durante il periodo raccontato vediamo come Tarantino si immagina il mondo dell’Hollywood che lo ha formato (per sua stessa ammissione), mostrandoci i problemi Umani degli attori, mangiati dal sistema e rigettati, che si ritrovano ad autodistruggersi nel loro disperato arrancare per rimanere a galla, nella speranza dell’occasione della vita (Rick non fa eccezione). 
D’altro canto il regista ci racconta anche il modo puro e naif con cui si poteva vivere la Hollywood di quel periodo, ovvero con gli occhi di chi sembra star per sfondare. E lo fa attraverso il personaggio di Sharon Tate (interpretata dall’illegalmente bella Margot Robbie): tutte le volte che l’attrice compare in scena è come se si vivesse la favola di Hollywood, un mondo idilliaco e perfetto, felice. In netta contrapposizione con le disavventure professionali di Rick e Cliff.
Non voglio raccontarvi altro del film e della sua storia, ho già detto troppo. Sappiate che durante la storia appaiono molti nomi noti del cinema: alcuni sono abitué delle pellicole tarantiniane; altri, invece, sono mostri sacri del cinema (Al Pacino su tutti); qualcuno compare solo come cameo (in questo film c’è l’ultima interpretazione dell’ormai compianto Luke Perry).

Parlando un attimo del senso di questo film – che è stato ampiamente criticato -, se vi dovessi dare la mia risposta alla domanda “ma cosa voleva raccontare Tarantino con questo C’era una volta a… Hollywood?”, risponderei con un discorso che si potrebbe riassumere nella frase “un po’ di tutto e un po’ di niente”.
Secondo me è come avrebbe voluto che fossero andate le cose, cioè avrebbe voluto che nella vita normalissima e a volte noiosa di un attore di medio-basso livello fosse intervenuta una serie di eventi, anche eccezionali, che fosse riuscita a modificare ciò che il mondo lesse sui giornali la mattina del 10 agosto 1969. Come ho già detto, un semplice what if, raccontato tramite la vita di tutti i giorni. 

Il film è indubbiamente lungo e impegnativo: due ore e quaranta sono tante. Ma è un film che, se riesce a imbrigliarti nella sua visione del mondo, ti cattura e lo fa nei modi più semplici: con la musica di un film alla televisione che diventa colonna sonora delle scene, con un vinile appoggiato sul piatto del giradischi o con due personaggi che chiacchierano bevendo un cocktail e fumando una sigaretta. 
Un film sicuramente particolare e insolito (anche per Tarantino) – forse più vicino ai ritmi di The hateful eight che a quelli di un Kill Bill o di un Bastardi senza gloria che, tuttavia, se prende ti tiene fino all’ultimo secondo a godere di quelle cose normalissime che avvengono sullo schermo… per poi esplodere – in puro stile tarantino – nel divertentissimo e meraviglioso finale, climax degli eventi a cui abbiamo assistito.

Un film forse non per tutti i palati, un film particolare, che personalmente rivedrei altre mille volte. Nonostante ne comprenda le criticità che lo hanno posto sulla bocca di tutti, io lo ho amato, non ci posso fare niente. 

 

Avete visto il film? Apprezzate il regista? Cosa ne pensate?

EMME

cinema, Quentin Tarantino, recensione film

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